Quando il talento e lo spettacolo non sono nulla di fronte alla vergogna del non rispetto e dell’inciviltà. Ieri a Livorno il nostro calcio e il nostro popolo tutto han perso un’altra buona occasione per tornare sui binari della correttezza, per dimostrare, una volta per tutte, di essere soltanto uno splendido sport e null’altro, di essere un educato esempio per l’intera società. Essendo un fenomeno di massa, questo calcio influenza ogni giorno in maniera sempre più influente, sempre più determinante. Non è solo uno svago, è un fattore culturale. Che razza di cultura è questa? Che razza di sport è questo? Come possiamo sederci al tavolo delle grandi nazioni che propongono questo spettacolo e assurgerci al ruolo di promotori mondiali della diffusione della rotonda sfera? Ma come possiamo noi pretendere che il nostro movimento pallonaro venga preso in considerazione in quanto uno dei pilastri globali di questo sport? Ma qui, se ci ragioniamo a fondo, non è nemmeno questione di sport. Qui regna l‘ignoranza e la demenza, punto. Le bandiere non c’entrano, al pari della fede e della volontà di qualche individuo di rendersi famoso per qualche ora. Qui c’è la profondità di un problema ben più grave. Non siamo capaci di crescere, perché non siamo capaci di ragionare in modo intelligente. Queste parole saranno fin troppo dure ma, credetemi, nulla è più disgustoso di vedere un insulto tale alla dignità di un popolo intero. Il vento della cattiveria soffia sempre più forte. Non chiamatemi retorico, non chiamatemi moralista: sono solo uno dei tanti che ieri avrebbero voluto tanto aver sentito male. Se non siamo capaci di rispettare un povero ragazzo morto, come possiamo pensare di rispettare chiunque altro? Odiamoci e prendiamoci del tempo per pensare a quanto dobbiamo crescere. Quel che vogliamo è sentirci sicuri di poterci gustare uno spettacolo, non un orrore. Basta.
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