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Pescara-Reggina, ESCLUSIVO/ Cannarsa: “De Canio disse che la partita era nostra”

30 maggio 1999. Terzultimo turno del campionato di Serie B. Nella settimana che precede Pescara-Reggina il tecnico dei biancazzurri, Gigi De Canio, dipinge l’attaccante avversario Possanzini come un diavolo. In realtà, a Reggio c’è chi ne sa una più del diavolo: è Lillo Foti, che si inventa una campagna abbonamenti “sulla fiducia”, consentendo praticamente alla tifoseria di scommettere sulla prima storica promozione della Reggina in Serie A. Quello dell’Adriatico è uno scontro diretto. Finisce 0-2.

La seconda rete, manco a dirlo, la segna Possanzini. Ma è un’autorete di Yuri Cannarsa a sbloccare il risultato nella ripresa, dopo che Gelsi nel primo tempo fallisce clamorosamente un rigore in favore dei padroni di casa. A fine gara, De Canio si domanda cosa possa aver detto il collega Bolchi ai suoi ragazzi, nell’intervallo. SerieBnews ha contattato in esclusiva un doppio ex nonché (sfortunato) protagonista di quella partita, ovvero Yuri Cannarsa, anche per sapere cosa disse invece De Canio negli spogliatoi a distanza di 13 anni. Per i pochi smemorati, il campionato si concluse con la promozione della Reggina, mentre gli abruzzesi rimasero in B. La sfida, all’Adriatico, non si è più riproposta.

 

Yuri, hai speso circa un terzo della tua carriera a Pescara

“Ho iniziato facendo le giovanili a Pescara. Dopo la trafila, sono finito in prima squadra. Nella Primavera, ho avuto come compagni gente del calibro di De Sanctis, Margiotta e Mauro Esposito. Ho avuto la fortuna di esordire a 19 anni, e giocare lì per alcuni anni. Essendo del posto,
alcuni periodi sono stati duri. Quando ci sono momenti negativi, chi è della città subisce di più a livello psicologico. Mi sono confrontato con giocatori importanti. Se nomino Andrea Carnevale, i ragazzi di oggi non sanno nemmeno chi è. È stata una grandissima esperienza. L’ambiente è molto bello quando c’è entusiasmo, cosa che si è creata grazie a Zeman. A livello societario si è ricostruito là dove c’erano grandi problemi. La squadra è composta da ragazzi giovani e sta dimostrando di essere tra le prime della classe. Il boemo si basa molto sui giovani e sulla loro capacità di sacrificarsi”.

 

Pescara-Reggina del ’99. Cosa vi disse De Canio all’intervallo?

“A me, sinceramente, disse che la partita era nostra. Avevamo fatto un gran primo tempo, sbagliando un rigore, e comunque la partita ce l’avevamo in mano. Ci ha detto di continuare così, stando attenti a non sbilanciarci troppo. Poi c’è stato l’episodio dell’autogol mio che ha complicato tutto. È stato un autogol frutto dell’inesperienza, anche se in quella circostanza non sono stato molto aiutato dal portiere. Mi chiamò la palla quando stavo per colpirla e sono rimasto fermo, immobile mentre saltavo di testa. Per reagire ci siamo sbilanciati ed abbiamo preso il secondo gol in contropiede. C’erano piccoli segnali che qualcosa non doveva andare, come il rigore sbagliato ed il mio autogol. Lì sono svaniti i nostri sogni di andare in A. Non è bastato vincere le partite successive contro Lecce e Brescia”.

Nell’arco del torneo, vi siete sentiti superiori o inferiori alla Reggina?

“No, non ci siamo sentiti superiori. Eravamo consapevoli del fatto di subire pochi gol, riuscendo spesso a tenere l’1-0. Non facevamo un calcio spumeggiante, mettevamo concentrazione e tatticismo. C’era gente di qualità, come Allegri e Giampaolo, capaci di inventarsi la giocata e di dettare i tempi. Nella Reggina c’era più gente di corsa, come Tonino Martino che poi ho ritrovato a Livorno. Sapevamo di poter ambire alla vittoria del campionato”.

 

Come hai vissuto il tuo biennio a Reggio Calabria?

“Anni meravigliosi, sotto tutti i punti di vista. Sono cresciuto come uomo e come calciatore, pur essendo poi sceso di categoria. Ho fatto delle esperienze con Mazzarri e Foti, dove mi sono relazionato con persone che sanno di calcio e vivono di questo, consapevoli che l’umiltà sia il valore principale. Con mia moglie parliamo spesso di Reggio, ci siamo innamorati della città e dell’ambiente che girava attorno alla squadra. Foti tratta i giocatori come figli, li protegge in ogni cosa. Qualsiasi cosa avessimo bisogno, lui ed il dottor Favasuli, altro elemento fondamentale, c’erano sempre. Il secondo anno mi sono rotto il ginocchio, ma nonostante questo ho visto il calcio vero. I tifosi sono incredibili. Anche se si lottava per non retrocedere, erano sempre presenti ad incitarci. Spesso tornavo a casa a piedi, e per strada mai nessuno si è permesso di andare oltre la battuta. C’è molta consapevolezza dei sacrifici che fanno i calciatori per raggiungere determinati traguardi”.

 

Paolo Ficara

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